Emergenza mondiale e neurobiologia
di stress e depressione
GIOVANNI
ROSSI
NOTE E NOTIZIE - Anno XX – 02 dicembre
2023.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE ED
EXCURSUS SAGGISTICO]
La rivista Proceedings of the National Academy of Sciences
USA dedica un numero speciale monografico all’attualità
di quella emergenza globale che è stata definita “una seconda pandemia” di
disturbi d’ansia e dell’umore, causati da reazioni ad eventi stressanti e che
vanno da isolati sintomi fobici al disturbo post-traumatico da stress
(PTSD), da riduzione di energie psichiche con abbassamento del tono dell’umore
fino alla depressione maggiore. Il fascicolo di prossima pubblicazione è
primariamente dedicato alle basi neurobiologiche e si intitola: The neurobiology of stress: Vulnerability,
resilience, and major depression,
ma, come precisano nella presentazione introduttiva alla raccolta di nuovi
studi sperimentali e rassegne Huda Akil e Eric J.
Nestler, questa iniziativa deve essere intesa come una risposta alla domanda: “How
can science help?”
Dunque, nella neurobiologia della vulnerabilità e
della resistenza allo stress e dello sviluppo di depressione maggiore
possiamo trovare indicazioni preventive e terapeutiche, secondo quei principi
che da vent’anni la nostra società scientifica porta avanti e trasmette nel nostro
paese alle nuove generazioni di medici e ricercatori.
Akil e Nestler dichiarano che la loro speranza è
avviare un’ampia discussione sul potere – ossia la capacità e la possibilità
– degli strumenti scientifici di base e clinici di affrontare queste sfide e
offrire strategie di trattamento e prevenzione.
I due ricercatori, proponendo il paragone con l’emergenza
pandemica da SARS-CoV-2, osservano che, a differenza delle strategie mediche semplici
e chiare per combattere una pandemia virale, i disturbi del cervello si
presentano come problemi complessi che implicano molte variazioni individuali e
aspetti sconosciuti. Ad esempio, la depressione e gli altri disturbi correlati hanno
una base neurobiologica ben definita, ma le nostre conoscenze biologiche non
sono ancora così complete da poter essere tradotte in pratica clinica. Infatti,
l’inquadramento nosografico e i criteri adottati per la diagnosi si basano
esclusivamente su sintomi riferiti e obiettività osservata, e nessuna misura
biologica rientra tra i parametri diagnostici.
I disturbi d’ansia, in passato chiamati nevrosi
e poi psiconevrosi emozionali, oggi non sono più considerati di origine
psichica, ossia il risultato di processi psicopatologici inconsci legati al
tipo di personalità del paziente, ma reazioni a esperienze acute o
croniche in grado di attivare intensamente o ripetutamente i sistemi neuronici
dello stress, fino a determinare forme di perdita di equilibrio o
compenso, che corrispondono alle differenti sintomatologie. Le differenze fra le
manifestazioni dei disturbi d’ansia, oltre che dalla gravità dello scompenso
funzionale, si ritiene dipendano da un endofenotipo cerebrale, in parte
dovuto al genotipo, in parte acquisito attraverso un apprendimento con effetti
epigenetici. Proprio grazie agli studi neurobiologici sappiamo che i disturbi
dell’umore e i disturbi da stress, oltre che molteplici ed eterogenei
sono altamente interrelati; tuttavia, sono correntemente diagnosticati riportandoli
a classi e forme, modificate e aggiornate su base epidemiologico-statistica, della
nosografia psichiatrica classica.
Huda Akil e Eric J. Nestler discutono ampiamente ed
approfonditamente, in un’ottica neurobiologica, questioni di attualità
scientifica e clinica globale, che qui presentiamo ai nostri lettori.
(Huda
Akil & Eric J. Nestler, The neurobiology of stress: Vulnerability,
resilience, and major depression. Proceedings of the National Academy of Sciences USA – Epub ahead of print doi: 10.1073/pnas.2312662120, 2023).
La provenienza degli autori è la seguente: Michigan
Neuroscience Institute, University of Michigan, Ann Arbor, MI (USA); Department of Psychiatry, University
of Michigan, Ann Arbor, MI (USA); Department of Neuroscience and Friedman Brain
Institute, Icahn School of Medicine at Mount Sinai, New York, NY (USA).
Per introdurre agli argomenti discussi da Huda Akil
e Eric J. Nestler proponiamo una sintesi storica delle tappe che hanno portato dall’identificazione
dei disturbi da stress – inizialmente individuati nella forma del trauma
psichico da esperienza bellica – fino alla conoscenza delle prime basi
biologiche di questi disturbi:
“Nel 1871, durante la
Guerra civile Americana, un medico di nome Da Costa[1] descrisse una sindrome che colpiva i soldati
esposti allo stress del combattimento, caratterizzata da spossatezza,
irritabilità, costante stato di allerta, elevata frequenza cardiaca ed
accentuazione generalizzata delle risposte fisiologiche. Da Costa focalizzò l’attenzione
sulle manifestazioni cardiovascolari, facilmente rilevabili con la semeiotica fisica,
per l’aumento della forza di contrazione cardiaca associato a tachiaritmie ed
innalzamento della pressione arteriosa, e si rese conto dell’origine “riflessa”
dei sintomi. Definì, perciò, questa patologia Soldier’s Irritable Heart
(cuore irritabile del soldato).
Da notare
che Da Costa considerò il cuore irritabile parte di una sindrome di
attivazione da stress interessante tutto l’organismo e, anche se ne
studiò solo gli aspetti organici, ne comprese a fondo l’eziologia psichica
dovuta alle condizioni di paura e di tensione estreme[2].
Il cuore
irritabile del soldato fu da allora ribattezzato con l’eponimo del medico
americano, Da Costa’s Syndrome, la cui descrizione è importante perché
rappresenta la prima formulazione nosografica di un disturbo da stress”[3].
La portata di questa osservazione, analizzata e
approfondita più volte nei seminari dal nostro presidente, si comprende meglio
se si tiene conto del fatto che nell’Ottocento vigeva ancora una dicotomia
interpretativa, che considerava vera patologia quella in cui era dimostrabile
diagnosticamente una lesione organica o un’alterazione patologica delle
funzioni esplorabili dell’organismo, mentre escludeva il danno sine materia,
come lo star male per cause psichiche, dalle condizioni di interesse medico. Il
dolore morale era considerato materia per preti, poeti e narratori, lontano
dagli interessi della scienza e dalle possibilità della terapia, soprattutto
nella gamma compresa tra la disdicevole debolezza della sofferenza amorosa e la
colpevole viltà della paura di fronte al nemico[4]. Da Costa
invece, col suo “cuore irritabile”, fa entrare nella nosografia medica come
patologia cardiologica la paura traumatica dovuta all’esperienza di impotenza del
singolo di fronte ad un evento mortale improvviso, associato a un fragore in
grado di evocare anche negli animali la reazione di fuga, e contro il quale non
vale astuzia, intelligenza, forza fisica o addestramento[5].
La paura, generata dal cervello come reazione che fa
ammalare il corpo, in questi casi è evidentemente qualcosa di diverso dall’opposto
del coraggio richiesto al soldato valoroso come se si fosse ancora al tempo dei
Greci o dell’antica Roma. In quel caso il timore dell’altro era vinto dalla “coscienza
del possesso di mezzi fisici almeno pari ai suoi e dalla consapevolezza che
esprimendo concentrazione massima, furia, potenza, rapidità di azione, intensità
rabbiosa si può indurre il nemico a fuggire a gambe levate; e questo era il
coraggio: determinazione, forza e fiducia in sé stessi”[6]; in
questo caso, invece, che coraggio sarebbe quello di andare con un semplice fucile
munito di baionetta attraverso un terreno minato contro palle di cannone che, un
attimo dopo il tonante e assordante scoppio, trasformano il campo nemico in un
cimitero di brandelli di corpi sfracellati, sminuzzati e irriconoscibili? Solo incoscienza.
Da Costa, non solo pone per la prima volta all’attenzione della classe medica
un disturbo dovuto a trauma psichico, ma segnala un ritardo culturale a tutta la
sua generazione che, per mancanza di consapevolezza e passiva consuetudine,
continua ad adottare un paradigma anacronistico e del tutto inappropriato alla comprensione
della realtà delle reazioni del cervello e di tutto l’organismo a eventi traumatici
non controllabili, quali quelli che si verificano nelle circostanze belliche.
Dopo l’osservazione del medico americano, in Europa Emil
Kraepelin – uno psichiatra di caratura accademica internazionale noto per la
sua opera nosografica e per il contributo allo studio della dementia praecox,
definita schizofrenia dal suo allievo Eugen Bleuler – introdusse la
categoria della schreckneurose[7], letteralmente
“nevrosi da spavento”[8], resa in
inglese con fright neurosis e adottata negli anni seguenti nella denominazione
diagnostica di disturbi indotti da eventi bellici.
Kraepelin non azzarda ipotesi sui meccanismi alla
base della fisiopatologia ma, forse anche tenendo in considerazione i
dettagliati resoconti di Da Costa, non sottovaluta la risposta neurovegetativa cardiovascolare,
ritiene che il processo sia di origine psichica con estesa e intensa espressione
organica, e cerca di spiegarlo con queste parole: “[una condizione] composta da
molti fenomeni nervosi e psichici insorgenti come risultato di un grave
sconvolgimento emozionale o di un improvviso spavento che abbia accumulato
grande ansietà”[9].
Sigmund Freud fu molto attento agli effetti della
guerra sulla psiche umana e nel 1915, “consultato circa il crescente numero di
vittime della tensione e dell’angoscia che si producevano in battaglia, fornì la
diagnosi di Kriegneurose o war
neurosis o ‘nevrosi di guerra’, attribuendone la causa al conflitto che si
determinava fra l’impulso di fuggire e il dovere di combattere”[10].
Non è superfluo rilevare che fino a quest’epoca, e
ancora nei decenni successivi fino alla II Guerra Mondiale, l’impatto della guerra
sulla salute della persona era riferito quasi esclusivamente all’esperienza dei
militari; sebbene già i bombardamenti della I guerra Mondiale avessero
richiamato l’attenzione degli psichiatri sui civili, solo con il secondo
conflitto mondiale, con la guerra come distruzione di massa di popolazioni
inermi, la medicina e la psichiatria indagano gli effetti della guerra sulle
circostanze di vita e sulla salute di tutti i cittadini.
Dopo Freud, numerosi medici descrissero sintomi prodotti
dallo stress del fronte e della vita militare durante i conflitti,
concentrandosi particolarmente su segni amnesici o cognitivi “come dimenticare
il proprio nome sul campo di battaglia, essere in uno stato stuporoso o
dimenticare dati di conoscenza personale sempre ricordati o eventi gravi appena
accaduti durante il conflitto. A seguito dei bombardamenti, in altri soldati
prevalevano sintomi quali paralisi, mutismo, cecità, tremori intrattabili e
ansia intensa.
In assenza di fattori etiologici materiali ben
riconoscibili che giustificassero queste manifestazioni, si concluse che il
cervello riportasse un danno concussivo per l’esplosione ravvicinata, che si
esprimeva con questa varietà di sintomi. A questa condizione, nel 1915, fu dato
il nome di Shell Shock, che si può rendere in italiano con Shock da
bombardamento (da to shell = bombardare)”[11].
La definizione di shock da bombardamento
faceva entrare nella competenza medica la condizione di malessere soggettivo (illness non disease) e, se
da un canto fu positivo perché induceva i medici a occuparsi dei disturbi di
questi pazienti e, seguendo l’impostazione di Da Costa, a somministrare loro
sintomatici, palliativi e antalgici, dall’altro fu involontariamente negativo,
perché questi pazienti venivano ospedalizzati con lunghe o lunghissime degenze,
che favorivano lo sviluppo di inibizione, depressione e consolidamento di
alcuni sintomi psichici derivati dal trauma. Pochi facevano ricorso alla psicoanalisi,
l’unico trattamento psicoterapeutico esistente all’epoca. Quando fu chiaro che
le lunghe ospedalizzazioni favorivano la cronicizzazione e il peggioramento in
una parte considerevole di affetti da shock da bombardamento, si decise
di considerare la sindrome come una “entità puramente psicologica”, con la
conseguenza di far uscire nuovamente questo stato dall’ambito medico, favorendo
le insinuazioni di malattia immaginaria o simulazione, lasciando in pochi casi
una porta aperta per l’ambulatorio psichiatrico con l’assimilazione a una sindrome
isteriforme, ovvero lo sviluppo di sintomi per processi inconsci che finivano
per produrre un vantaggio secondario al paziente.
Alfred Adler, allievo e poi collaboratore di Freud,
lavorando tra il 1915 e il 1920 sui casi dovuti alla guerra del ’15-’18, distinse
due forme di nevrosi dovute all’esperienza traumatica, una ad insorgenza precoce
e l’altra ad insorgenza tardiva. Nello stesso periodo, Pierre Janet descrisse
la scissione della coscienza, per effetto del trauma, in due processi paralleli
che potevano o meno essere coscienti l’uno dell’altro, dando luogo alla
concezione di dissociazione che è giunta fino a noi, ed è conservata
nella definizione dell’amnesia temporanea da trauma quale “amnesia dissociativa”[12].
Gli studi condotti durante il primo conflitto
mondiale per la prima volta hanno portato alla distinzione tra disturbi acuti e
disturbi cronici causati dai traumi bellici: “Lo studio delle Nevrosi di Guerra
e dello Shell Shock riconosce una causa acuta alle amnesie sul campo di
battaglia, ma si fa carico anche del perdurare dei sintomi da stress,
attribuito ad un affaticamento da combattimento del sistema nervoso; infatti,
Mott (1919)[13] e altri
(1915-18, 1920-30) introducono la categoria nosografica della Combat Fatigue
(lett.: affaticamento da combattimento). Durante la I guerra Mondiale sono
diagnosticati 80.000 casi di Sindrome di Da Costa fra i soldati inglesi.
Si va affermando una dicotomia fra sindromi psichiche (Combat Fatigue, Shell
Shock e Nevrosi di Guerra) e sindromi fisiche prevalentemente
cardiovascolari (Cuore irritabile del soldato)”[14].
Ma non mancano i passi indietro, in questo percorso
di conoscenza clinica. Alcuni autori, infatti, non ritengono che l’impatto dello
stressor, come fenomeno o evento traumatico, sia di per sé capace di
causare un disturbo, e in particolare quelle sindromi che si chiamavano allora psiconevrosi
emozionali, la cui psicogenesi era sempre e solo attribuita a un conflitto intrapsichico:
“Kardiner e Spiegel (1930-1938) interpretano i sintomi e i disturbi a distanza
dagli eventi traumatici presentati dai veterani della I guerra Mondiale come il
‘perdurare della rottura delle funzioni egoiche’, diagnosticando una psiconevrosi
(Psychoneurosis), ovvero una nevrosi basata su
un conflitto emozionale. Negano però la possibilità di patologia cronica da
stress”[15].
Questo approccio, tuttavia, non si generalizza e la
realtà degli effetti acuti causati dai bombardamenti del secondo conflitto
planetario diviene clinicamente prioritaria nella medicina di pronto soccorso,
come in neurologia e psichiatria: “L’interesse per le manifestazioni amnesiche
e dissociative da stress si riaccende per la vasta casistica dovuta alla II
Guerra Mondiale (1939-45). Sargent e Slater (1941) propongono le War Amnesic Syndromes, ossia le sindromi
amnesiche da guerra.
Torrie (1944) studia la patologia psicosomatica da stress (Psychosomatic Syndromes)
particolarmente in Medio Oriente ed evidenzia il suo rapporto con le reazioni
amnesiche. Descrive fenomeni amnesici molto estesi, ad esempio riferisce che
poco dopo l’inizio di un combattimento in Nord Africa il 5% dei soldati che vi
prendevano parte non se ne ricordavano più.
Grinker e Spiegel, che introdussero la definizione
di Combat Neuroses, sono gli autori di un
volume considerato a lungo una pietra miliare nello studio degli effetti
psicologici dello stress: Men Under Stress (1945)[16]. Il loro
sforzo di sintesi coerente dei vari sintomi psichici e fisici, attribuiti
prevalentemente all’eccessiva produzione di adrenalina, li porta ad organizzare
i molteplici aspetti clinici in distinte forme di nevrosi”[17].
Gli orrori bellici consentono di rendersi conto del
danno cronico causato sui civili e non solo degli effetti acuti da trauma. La
guerra logora e distrugge la personalità in alcuni casi, come quando la
barbarie degli eserciti si accanisce in modi diversi di tortura e uccisione
sulla popolazione civile, attraverso la deportazione nei campi di sterminio,
dove Ebrei e altre minoranze etniche venivano affamati, torturati, sottoposti a
regimi di lavoro intollerabili e poi uccisi nelle camere a gas e nei forni
crematori.
“Eitinger nello studio dei sopravvissuti ai campi di
concentramento nazisti, condotto dal 1948 al 1965 prevalentemente in Israele e
Norvegia[18], fornisce
la prima esaustiva descrizione della sindrome da stress cronico,
caratterizzata da astenia, umore depresso, apatia, difficoltà di
concentrazione, diminuzione della memoria, ansia, cefalea, disturbi del sonno,
incubi, pensieri intrusivi, stato di allerta e tendenza a preoccuparsi.
Definisce questo quadro Concentration Camp
Syndrome, ritenendolo espressione di una risposta cronica di qualità
nevrotica allo stress protratto.
Altri studi confermarono il rilievo di questi
sintomi a molti anni di distanza dall’internamento, rilevando anche sentimenti
di distacco ed estraniazione dagli altri e il ricorrente attualizzarsi di
ricordi nella forma di veri e propri incubi diurni (Thygesen
e coll., 1970)”[19].
La prima edizione del Manuale Diagnostico e
Statistico (DSM) dell’American Psychiatric Association, pubblicata nel
1952, per effetto dei numerosi studi sulla vasta casistica di patologia da
stress causata dalla II Guerra Mondiale, include la categoria diagnostica della
gross stress reaction. La seconda
edizione del DSM, edita nel 1968 a una generazione di distanza dagli eventi
bellici, elimina la diagnosi di gross
stress reaction, legata dunque solo alla guerra.
Seguiamo ciò che accade riprendendo la lettura del
saggio del nostro presidente:
“Ma i temi e i problemi della psicopatologia
traumatica furono drammaticamente riproposti da un altro conflitto: la guerra
del Vietnam.
Lawrence Kolb, assistendo e trattando i reduci della
guerra del Vietnam, ebbe l’opportunità di studiare a fondo le loro condizioni,
riportando in auge le conoscenze acquisite in passato ed apportando rilevanti
contributi originali. Fra questi, il riscontro di un rapporto fra la condizione
fisiopatologica sistemica e lo stato psichico generale, originò da un’osservazione
casuale. Infatti gli capitò di osservare, non visto, i suoi pazienti in attesa
nella sua sala d’aspetto: dov’erano seduti gli volgevano le spalle ed
aspettavano il loro turno mentre la sua segretaria scriveva a macchina. Lo
psichiatra americano notò che ogni volta che il carrello della macchina da
scrivere della sua segretaria segnalava la fine della riga con il tipico suono di
campanello, i pazienti sobbalzavano. Avevano un vero e proprio sussulto sulla sedia.
Kolb chiamò questa reazione startle response e l’attribuì ai livelli di nor-adrenalina
cronicamente alti in queste persone, come conseguenza dello stress”[20].
Sulla scorta di questi studi, e soprattutto di
quelli di Charles Figley sui veterani del Vietnam[21], si
giunse nel 1980 a includere nella terza edizione del DSM, detto DSM III, la
diagnosi di Post Traumatic Stress Disorder.
L’anno dopo comincia l’era contemporanea nello
studio dei danni causati dalla guerra, con il progressivo passaggio della priorità
dallo studio della sintomatologia clinica alle indagini sul cervello, favorite
dalle nuove metodiche di diagnostica per immagini, e in particolare dall’impiego
della risonanza magnetica nucleare (RMN).
Oggi, per avere un’idea generale e complessiva del male
che la guerra può fare ai popoli, si possono leggere le stime storico-statistiche
di Clemens e Singer sui danni delle guerre, che furono inserite nella
pubblicazione di un corso tenuto nel 2000 alla Waseda University di Tokyo,
insieme con un articolo di Boothby e Knusden, da Richard Mollica, che ha dedicato gran parte
della propria vita professionale all’assistenza e all’analisi della psicopatologia
dei sopravvissuti dei conflitti, diventando un riferimento per gli psichiatri
di tutto il mondo.
“Richard Mollica, professore di psichiatria della
Harvard Medical School, è stato tra i fondatori nel
1981 dell’Harvard Program in Refugee Trauma, uno dei
primi programmi per l’assistenza e lo studio dei sopravvissuti alla violenza di
massa e alla tortura, attualmente considerato il progetto pilota in tutto il
mondo per la ricerca clinica sul Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD).
Nel 1988 un team di psichiatri dell’Università di
Harvard guidato da Richard Mollica fu inviato a Site 2, il più grande
campo di rifugiati cambogiani[22], per uno
studio condotto con il sostegno della World Federation for Mental
Health. Furono intervistati 993 ospiti che riferirono di torture, stupri,
prigionie e rapimento di bambini, per un totale di 15000 diversi episodi
traumatici[23]. I casi
di depressione clinica acuta e di PTSD furono stimati, rispettivamente, nell’ordine
del 68% e 37%; valori simili furono riscontrati in altre due popolazioni di rifugiati:
i Buhtanesi che vivono in Nepal e i Bosniaci che
vivono in Croazia[24].
Nel 1999, per effetto degli accordi intercorsi fra i
Khmer Rossi e il governo di Phnom Penh, migliaia di rifugiati rientrarono dai campi:
molti di essi presentavano sintomi di depressione e di PTSD. Lo studio protratto
consentì di accertare l’esistenza, accanto a coloro che presentavano sintomi gravi,
di un numero vastissimo di persone affette da disturbi minori ma persistenti: “ferite
invisibili” in grado di condizionare il resto della vita”[25].
È interessante notare che, sebbene i programmi ONU
fossero improntati alla massima ampiezza nel sostegno materiale e a notevole
disponibilità per l’assistenza in generale, non prevedevano alcun servizio
psichiatrico o di assistenza psicologica; in altri termini, un secolo dopo Da
Costa, c’era ancora una resistenza culturale a dare dignità di malattia, con diritto
di trattamento, alla sofferenza psichica e psicosomatica. Dopo la presentazione
del lavoro svolto da Mollica e colleghi sui Cambogiani, le autorità dell’ONU
decisero di fornire assistenza psichiatrica ai rifugiati di tutte le guerre del
mondo.
La grande mole di lavoro svolta dal programma di Harvard
e da tutti gli altri gruppi internazionali di psichiatri e psicologici clinici
che hanno seguito Mollica e colleghi, ha portato a conclusioni che si possono sintetizzare
in sei punti:
1)
picco di
malattie psichiatriche tra i civili sopravvissuti alle guerre;
2)
misura
rigorosa della natura del trauma;
3)
comprensione
del modo di concepire la malattia nel mondo non occidentale;
4)
alcune
esperienze traumatiche più facilmente inducono PTSD e depressione;
5)
modificazioni
organiche permanenti del cervello indotte dai traumi maggiori;
6)
relazione tra
sofferenza da stress e disfunzioni riguardanti il ruolo sociale.
Ma, ritorniamo alla ricerca sulle lesioni causate
dallo stress di livello traumatico all’ippocampo e alle altre aree vulnerabili
del cervello umano.
L’orientamento verso l’accertamento diretto di danni
cerebrali nell’uomo è stato anche indotto in quegli anni dall’enorme mole di
dati della ricerca preclinica che aveva mostrato vari tipi di danno da stress
nel cervello animale, dal livello molecolare, di neurotrasmettitori e recettori,
fino al livello di sistemi e strutture particolarmente vulnerabili, quali
ippocampo, amigdala e corteccia cerebrale.
“Sulla base di queste evidenze il gruppo di Douglas
Bremner intraprese uno studio per verificare l’ipotesi del danno organico. Sottoposero
ad un’accurata indagine morfologica mediante RMN un campione di veterani
affetti da PTSD, comparandoli con un gruppo di controllo costituito da persone
non affette, ma in tutto equivalenti per caratteristiche. Risultò che gli
affetti da patologia psichica da trauma avevano un ippocampo di dimensioni
ridotte rispetto ai controlli normali. In particolare, l’ippocampo di destra
risultava, in media, inferiore dell’8%. Inoltre, la gravità del disturbo di
memoria era direttamente proporzionale alla perdita di volume ippocampale.
Questa ricerca, condotta nel 1995, evidenziò per la prima volta un danno da
stress nel cervello umano”[26].
Lo studio che ha registrato la maggiore riduzione di
volume dell’ippocampo in affetti da PTSD è stato condotto da Gurvits in veterani della guerra del Vietnam. Il risultato ha
mostrato una riduzione bilaterale del volume dell’ippocampo del 26% ed una
significativa correlazione con il livello di esposizione al combattimento misurato
con la Combat Exposure Scale[27].
Dopo questo excursus, ritorniamo ai contenuti
del numero speciale di PNAS USA presentati da Huda
Akil e Eric J. Nestler, riprendendo dai casi di depressione maggiore causata da
stress.
Prima della pandemia di COVID-19 era già noto e
confermato che il Disturbo Depressivo Maggiore (MDD) e i Disturbi d’Ansia (AD) sono
tra i principali problemi di salute in tutto il pianeta, ma entro il primo anno
la pandemia ha innescato una drammatica crescita dei casi, con un aumento di
circa 53 milioni di MDD e di 76 milioni di AD, costituendo un incremento di
circa il 25% di queste diagnosi. È stato verificato che la dimensione dell’aumento
di pazienti con disturbi da stress e dell’umore, nei singoli stati
nazionali, era strettamente correlata con la dimensione dell’impatto dell’infezione
da SARS-CoV-2 in quel paese.
A differenza di quanto è stato rappresentato dai
media, le persone in età più giovane, e le giovani donne in particolare, hanno
presentato l’impatto più profondo, nelle accurate indagini epidemiologiche per
fascia di età. Altri picchi di patologia psichiatrica reattiva alla paura sono
stati rinvenuti nelle professioni sanitarie, nei gruppi sociali economicamente
svantaggiati, nei poveri indigenti e fra le persone discriminate per motivi razziali.
I disturbi d’ansia e dell’umore hanno tipicamente un
decorso cronico recidivante e sono ritenuti responsabili di causare
alterazioni del cervello in modi vari e complessi. La loro recente crescita di
incidenza in bambini, adolescenti e giovani adulti è particolarmente
preoccupante perché, se non adeguatamente affrontati con un cambiamento di
stile di vita associato a psicoterapia e, quando indicato, a farmacoterapia,
possono determinare conseguenze incidenti per decadi e difficili da trattare. È
importante ricordare che questi disturbi accrescono la probabilità di patologia
cardiovascolare e infiammatoria, in generale, e hanno un profondo
impatto sull’organismo e sulla psiche del soggetto, potendo alterare i rapporti
familiari e causare problemi sociali e lavorativi per “invalidità” psico-fisica.
Non è esagerato, affermano i due autori, considerare
la presente emergenza di salute psichica globale come una nuova pandemia
rapidamente diffusa in tutto il globo; infatti – argomentano – anche se non è
propagata dal contagio biologicamente realizzato da un microrganismo come il
coronavirus pandemico, è provata un’influenza interindividuale e sociale che comunica
la paura e causa emulazione, suggestione, imitazione, adeguamento; pertanto è
necessario intervenire sia limitando il diffondersi dei casi, sia riducendo la
durata del disturbo negli affetti, così da interrompere la progressione
esponenziale.
Cosa può fare la scienza?
Akil e Nestler sono certi che la scienza possa fare
molto, innanzitutto facendo conoscere i grandi progressi compiuti negli ultimi
decenni nella definizione delle basi neurobiologiche di questi disturbi, e poi
cancellando quei luoghi comuni culturali – in Italia duri a morire presso gli
psicologi che non hanno basi neurobiologiche e neurochimiche adeguate – secondo
cui questi disturbi deriverebbero da uno squilibrio di un singolo
neurotrasmettitore (la serotonina), che la concausa ereditaria sarebbe
costituita da pochi geni che possono essere facilmente raggiunti da strategie
terapeutiche o che la definizione clinica (PTSD, MDD, AD, ecc.) corrisponda a specifiche
entità eziopatogeneticamente distinte e separate. La ricerca ha fornito un
quadro complesso e articolato di elementi e processi, che hanno come elemento
comune l’iperattivazione dei sistemi neuronici dello stress, con
l’attivazione nella patologia cronica di circuiti di amplificazione
della risposta (es.: circuito del locus coeruleus) con la produzione di danni
(es.: lesioni da cortisolo dell’ippocampo) e di squilibri fra gli altri
sistemi neuronici, e nell’omeostasi neuroendocrina e neuroimmunitaria, anche in
conseguenza delle risposte di adattamento/compenso allo squilibrio.
Akil e Nestler ritengono che una chiara coscienza
delle basi neuropatologiche attualmente accertate consentirebbe agli psichiatri
di adottare strategie molto più appropriate e personalizzate di quelle attualmente
in uso, pianificare e programmare trattamenti più efficienti e realizzare
progetti di prevenzione con la collaborazione di altri professionisti e delle
autorità sanitarie dei singoli paesi.
L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e
invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del
sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanni
Rossi
BM&L-02 dicembre 2023
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è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data
16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica
e culturale non-profit.
[1]
J. Douglas Bremner, Does Stress Damage the Brain?, p. 27, Norton, New
York 2002.
[2] Da Costa J. M., On irritable heart: A clinical study of a form of
functional cardiac disorder and its consequences. American Journal of Medical Science
161, 17-52, 1871.
[3] Giuseppe Perrella, Il
Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), pp. 13-14, Dipartimento di Neuroscienze
dell’Università Federico II, Napoli 2005.
[4] Cfr. Monica Lanfredini & Giuseppe
Perrella, Coraggio e Paura da Aristotele a Freud. Relazione al Seminario
Permanente sull’Arte del Vivere, p. 3, BM&L-Italia, Firenze 2006.
[5]
È ciò che connota e caratterizza
la differenza tra guerra antica, fatta di duelli di forza e abilità “uomo contro
uomo”, e guerra moderna, dominata da cannoni e mine. La concezione mitizzata
del coraggio degli eroi del mondo classico rimane, ma la realtà è del tutto
cambiata: l’antico doveva sapersi battere con forza fisica e armi bianche,
imparando a ripararsi per evitare l’insidia delle frecce; il moderno si trova
di fronte a una realtà in cui l’uomo fa la guerra usando strumenti che
assomigliano a quelli dei cataclismi naturali, più che a delle armi per rendere
letale un singolo su un altro.
[6] Giuseppe Perrella, Il
coraggio e la paura nei secoli, p. 2. BM&L-Italia, Firenze. Relazione
letta agli incontri presso il Caffè storico Gilli (Piazza della Repubblica,
Firenze) maggio 2006, tratta da uno studio condotto in precedenza per l’Istituto
di Clinica Psichiatrica dell’Università Federico II.
[7] Giuseppe Perrella, Il
Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), op. cit., p. 14.
[8] Cfr. Saigh P. A. & Bremner J. D. (editors), Posttraumatic stress
disorder: a comprehensive text, Allyn & Bacon Needham Heights,
Massachusetts, 1999, cit. in J. Douglas Bremner, op. cit,
p. 71.
[9] Emil Kraepelin, Psychiatrie, Vol.
V, p. 737, Auflage, Barth, Leipzig (1896-1985),
qui citato nella traduzione di G. Perrella dalla versione inglese di Jablensky (G. Perrella, op cit., p. 14; v. per la citaz. completa da Kraepelin), adottata anche da J. Douglas
Bremner, op. cit. p. 71.
[10] Giuseppe Perrella, Il
Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), op. cit., p. 15.
[11] Giuseppe Perrella, Il
Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), op. cit., p. 16.
[12] Giuseppe Perrella, op. cit., pp.
16-17.
[13] Cfr. F. W. Mott, War neuroses and shell shock. Oxford University Press, London
1919.
[14] Giuseppe Perrella, op. cit., p.
18.
[15] Successivamente Abram Kardiner
ammette questa possibilità interpretandola in chiave psicoanalitica come
sindrome che “può incorporarsi nella personalità in modi differenti”, come si può
leggere nel capitolo dedicato alle nevrosi traumatiche di guerra nell’American
Handbook of Psychiatry (Silvano Arieti, Manuale
di Psichiatria in tre voll., vol. I, p. 242, Boringhieri, Torino 1985).
[16] Grinker R. R. & Spiegel J. P., Men Under Stress. Blackiston,
Philadelphia 1945.
[17] Giuseppe Perrella, op. cit., pp.
18-19.
[18]
Leo Eitinger, Concentration Camp Survivors in Norway and Israel. Allen and Unwin,
London 1965.
[19] Giuseppe Perrella, op. cit., pp.
19-20.
[20] Giuseppe Perrella, op. cit., pp.
23-24.
[21] Charles Figley (editor), Stress Disorders among Vietnam
Veterans. Brunner-Mazel, New York 1978.
[22] “Site 2” fa parte dei campi per
i rifugiati che furono allestiti dall’ONU fra la Thailandia e la Cambogia.
[23] Richard F. Mollica, Invisible Wounds, Scientific American
Vol. 282, Number 6, 36-39, 2000.
[24] Richard F. Mollica et al., JAMA
282, 433-439, 1999.
[25] Giuseppe Perrella, op. cit., pp.
32-33.
[26] Giuseppe Perrella, op. cit., p.
41.
[27] Giuseppe Perrella, op. cit., p.
42.