Emergenza mondiale e neurobiologia di stress e depressione

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XX – 02 dicembre 2023.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE ED EXCURSUS SAGGISTICO]

 

La rivista Proceedings of the National Academy of Sciences USA dedica un numero speciale monografico all’attualità di quella emergenza globale che è stata definita “una seconda pandemia” di disturbi d’ansia e dell’umore, causati da reazioni ad eventi stressanti e che vanno da isolati sintomi fobici al disturbo post-traumatico da stress (PTSD), da riduzione di energie psichiche con abbassamento del tono dell’umore fino alla depressione maggiore. Il fascicolo di prossima pubblicazione è primariamente dedicato alle basi neurobiologiche e si intitola: The neurobiology of stress: Vulnerability, resilience, and major depression, ma, come precisano nella presentazione introduttiva alla raccolta di nuovi studi sperimentali e rassegne Huda Akil e Eric J. Nestler, questa iniziativa deve essere intesa come una risposta alla domanda: “How can science help?”

Dunque, nella neurobiologia della vulnerabilità e della resistenza allo stress e dello sviluppo di depressione maggiore possiamo trovare indicazioni preventive e terapeutiche, secondo quei principi che da vent’anni la nostra società scientifica porta avanti e trasmette nel nostro paese alle nuove generazioni di medici e ricercatori.

Akil e Nestler dichiarano che la loro speranza è avviare un’ampia discussione sul potere – ossia la capacità e la possibilità – degli strumenti scientifici di base e clinici di affrontare queste sfide e offrire strategie di trattamento e prevenzione.

I due ricercatori, proponendo il paragone con l’emergenza pandemica da SARS-CoV-2, osservano che, a differenza delle strategie mediche semplici e chiare per combattere una pandemia virale, i disturbi del cervello si presentano come problemi complessi che implicano molte variazioni individuali e aspetti sconosciuti. Ad esempio, la depressione e gli altri disturbi correlati hanno una base neurobiologica ben definita, ma le nostre conoscenze biologiche non sono ancora così complete da poter essere tradotte in pratica clinica. Infatti, l’inquadramento nosografico e i criteri adottati per la diagnosi si basano esclusivamente su sintomi riferiti e obiettività osservata, e nessuna misura biologica rientra tra i parametri diagnostici.

I disturbi d’ansia, in passato chiamati nevrosi e poi psiconevrosi emozionali, oggi non sono più considerati di origine psichica, ossia il risultato di processi psicopatologici inconsci legati al tipo di personalità del paziente, ma reazioni a esperienze acute o croniche in grado di attivare intensamente o ripetutamente i sistemi neuronici dello stress, fino a determinare forme di perdita di equilibrio o compenso, che corrispondono alle differenti sintomatologie. Le differenze fra le manifestazioni dei disturbi d’ansia, oltre che dalla gravità dello scompenso funzionale, si ritiene dipendano da un endofenotipo cerebrale, in parte dovuto al genotipo, in parte acquisito attraverso un apprendimento con effetti epigenetici. Proprio grazie agli studi neurobiologici sappiamo che i disturbi dell’umore e i disturbi da stress, oltre che molteplici ed eterogenei sono altamente interrelati; tuttavia, sono correntemente diagnosticati riportandoli a classi e forme, modificate e aggiornate su base epidemiologico-statistica, della nosografia psichiatrica classica.

Huda Akil e Eric J. Nestler discutono ampiamente ed approfonditamente, in un’ottica neurobiologica, questioni di attualità scientifica e clinica globale, che qui presentiamo ai nostri lettori.

(Huda Akil & Eric J. Nestler, The neurobiology of stress: Vulnerability, resilience, and major depression. Proceedings of the National Academy of Sciences USA – Epub ahead of print doi: 10.1073/pnas.2312662120, 2023).

La provenienza degli autori è la seguente: Michigan Neuroscience Institute, University of Michigan, Ann Arbor, MI (USA); Department of Psychiatry, University of Michigan, Ann Arbor, MI (USA); Department of Neuroscience and Friedman Brain Institute, Icahn School of Medicine at Mount Sinai, New York, NY (USA).

Per introdurre agli argomenti discussi da Huda Akil e Eric J. Nestler proponiamo una sintesi storica delle tappe che hanno portato dall’identificazione dei disturbi da stress – inizialmente individuati nella forma del trauma psichico da esperienza bellica – fino alla conoscenza delle prime basi biologiche di questi disturbi:

“Nel 1871, durante la Guerra civile Americana, un medico di nome Da Costa[1] descrisse una sindrome che colpiva i soldati esposti allo stress del combattimento, caratterizzata da spossatezza, irritabilità, costante stato di allerta, elevata frequenza cardiaca ed accentuazione generalizzata delle risposte fisiologiche. Da Costa focalizzò l’attenzione sulle manifestazioni cardiovascolari, facilmente rilevabili con la semeiotica fisica, per l’aumento della forza di contrazione cardiaca associato a tachiaritmie ed innalzamento della pressione arteriosa, e si rese conto dell’origine “riflessa” dei sintomi. Definì, perciò, questa patologia Soldier’s Irritable Heart (cuore irritabile del soldato).

Da notare che Da Costa considerò il cuore irritabile parte di una sindrome di attivazione da stress interessante tutto l’organismo e, anche se ne studiò solo gli aspetti organici, ne comprese a fondo l’eziologia psichica dovuta alle condizioni di paura e di tensione estreme[2].

Il cuore irritabile del soldato fu da allora ribattezzato con l’eponimo del medico americano, Da Costa’s Syndrome, la cui descrizione è importante perché rappresenta la prima formulazione nosografica di un disturbo da stress[3].

La portata di questa osservazione, analizzata e approfondita più volte nei seminari dal nostro presidente, si comprende meglio se si tiene conto del fatto che nell’Ottocento vigeva ancora una dicotomia interpretativa, che considerava vera patologia quella in cui era dimostrabile diagnosticamente una lesione organica o un’alterazione patologica delle funzioni esplorabili dell’organismo, mentre escludeva il danno sine materia, come lo star male per cause psichiche, dalle condizioni di interesse medico. Il dolore morale era considerato materia per preti, poeti e narratori, lontano dagli interessi della scienza e dalle possibilità della terapia, soprattutto nella gamma compresa tra la disdicevole debolezza della sofferenza amorosa e la colpevole viltà della paura di fronte al nemico[4]. Da Costa invece, col suo “cuore irritabile”, fa entrare nella nosografia medica come patologia cardiologica la paura traumatica dovuta all’esperienza di impotenza del singolo di fronte ad un evento mortale improvviso, associato a un fragore in grado di evocare anche negli animali la reazione di fuga, e contro il quale non vale astuzia, intelligenza, forza fisica o addestramento[5].

La paura, generata dal cervello come reazione che fa ammalare il corpo, in questi casi è evidentemente qualcosa di diverso dall’opposto del coraggio richiesto al soldato valoroso come se si fosse ancora al tempo dei Greci o dell’antica Roma. In quel caso il timore dell’altro era vinto dalla “coscienza del possesso di mezzi fisici almeno pari ai suoi e dalla consapevolezza che esprimendo concentrazione massima, furia, potenza, rapidità di azione, intensità rabbiosa si può indurre il nemico a fuggire a gambe levate; e questo era il coraggio: determinazione, forza e fiducia in sé stessi”[6]; in questo caso, invece, che coraggio sarebbe quello di andare con un semplice fucile munito di baionetta attraverso un terreno minato contro palle di cannone che, un attimo dopo il tonante e assordante scoppio, trasformano il campo nemico in un cimitero di brandelli di corpi sfracellati, sminuzzati e irriconoscibili? Solo incoscienza. Da Costa, non solo pone per la prima volta all’attenzione della classe medica un disturbo dovuto a trauma psichico, ma segnala un ritardo culturale a tutta la sua generazione che, per mancanza di consapevolezza e passiva consuetudine, continua ad adottare un paradigma anacronistico e del tutto inappropriato alla comprensione della realtà delle reazioni del cervello e di tutto l’organismo a eventi traumatici non controllabili, quali quelli che si verificano nelle circostanze belliche.

Dopo l’osservazione del medico americano, in Europa Emil Kraepelin – uno psichiatra di caratura accademica internazionale noto per la sua opera nosografica e per il contributo allo studio della dementia praecox, definita schizofrenia dal suo allievo Eugen Bleuler – introdusse la categoria della schreckneurose[7], letteralmente “nevrosi da spavento”[8], resa in inglese con fright neurosis e adottata negli anni seguenti nella denominazione diagnostica di disturbi indotti da eventi bellici.

Kraepelin non azzarda ipotesi sui meccanismi alla base della fisiopatologia ma, forse anche tenendo in considerazione i dettagliati resoconti di Da Costa, non sottovaluta la risposta neurovegetativa cardiovascolare, ritiene che il processo sia di origine psichica con estesa e intensa espressione organica, e cerca di spiegarlo con queste parole: “[una condizione] composta da molti fenomeni nervosi e psichici insorgenti come risultato di un grave sconvolgimento emozionale o di un improvviso spavento che abbia accumulato grande ansietà”[9].

Sigmund Freud fu molto attento agli effetti della guerra sulla psiche umana e nel 1915, “consultato circa il crescente numero di vittime della tensione e dell’angoscia che si producevano in battaglia, fornì la diagnosi di Kriegneurose o war neurosis o ‘nevrosi di guerra’, attribuendone la causa al conflitto che si determinava fra l’impulso di fuggire e il dovere di combattere”[10].

Non è superfluo rilevare che fino a quest’epoca, e ancora nei decenni successivi fino alla II Guerra Mondiale, l’impatto della guerra sulla salute della persona era riferito quasi esclusivamente all’esperienza dei militari; sebbene già i bombardamenti della I guerra Mondiale avessero richiamato l’attenzione degli psichiatri sui civili, solo con il secondo conflitto mondiale, con la guerra come distruzione di massa di popolazioni inermi, la medicina e la psichiatria indagano gli effetti della guerra sulle circostanze di vita e sulla salute di tutti i cittadini.

Dopo Freud, numerosi medici descrissero sintomi prodotti dallo stress del fronte e della vita militare durante i conflitti, concentrandosi particolarmente su segni amnesici o cognitivi “come dimenticare il proprio nome sul campo di battaglia, essere in uno stato stuporoso o dimenticare dati di conoscenza personale sempre ricordati o eventi gravi appena accaduti durante il conflitto. A seguito dei bombardamenti, in altri soldati prevalevano sintomi quali paralisi, mutismo, cecità, tremori intrattabili e ansia intensa.

In assenza di fattori etiologici materiali ben riconoscibili che giustificassero queste manifestazioni, si concluse che il cervello riportasse un danno concussivo per l’esplosione ravvicinata, che si esprimeva con questa varietà di sintomi. A questa condizione, nel 1915, fu dato il nome di Shell Shock, che si può rendere in italiano con Shock da bombardamento (da to shell = bombardare)”[11].

La definizione di shock da bombardamento faceva entrare nella competenza medica la condizione di malessere soggettivo (illness non disease) e, se da un canto fu positivo perché induceva i medici a occuparsi dei disturbi di questi pazienti e, seguendo l’impostazione di Da Costa, a somministrare loro sintomatici, palliativi e antalgici, dall’altro fu involontariamente negativo, perché questi pazienti venivano ospedalizzati con lunghe o lunghissime degenze, che favorivano lo sviluppo di inibizione, depressione e consolidamento di alcuni sintomi psichici derivati dal trauma. Pochi facevano ricorso alla psicoanalisi, l’unico trattamento psicoterapeutico esistente all’epoca. Quando fu chiaro che le lunghe ospedalizzazioni favorivano la cronicizzazione e il peggioramento in una parte considerevole di affetti da shock da bombardamento, si decise di considerare la sindrome come una “entità puramente psicologica”, con la conseguenza di far uscire nuovamente questo stato dall’ambito medico, favorendo le insinuazioni di malattia immaginaria o simulazione, lasciando in pochi casi una porta aperta per l’ambulatorio psichiatrico con l’assimilazione a una sindrome isteriforme, ovvero lo sviluppo di sintomi per processi inconsci che finivano per produrre un vantaggio secondario al paziente.

Alfred Adler, allievo e poi collaboratore di Freud, lavorando tra il 1915 e il 1920 sui casi dovuti alla guerra del ’15-’18, distinse due forme di nevrosi dovute all’esperienza traumatica, una ad insorgenza precoce e l’altra ad insorgenza tardiva. Nello stesso periodo, Pierre Janet descrisse la scissione della coscienza, per effetto del trauma, in due processi paralleli che potevano o meno essere coscienti l’uno dell’altro, dando luogo alla concezione di dissociazione che è giunta fino a noi, ed è conservata nella definizione dell’amnesia temporanea da trauma quale “amnesia dissociativa”[12].

Gli studi condotti durante il primo conflitto mondiale per la prima volta hanno portato alla distinzione tra disturbi acuti e disturbi cronici causati dai traumi bellici: “Lo studio delle Nevrosi di Guerra e dello Shell Shock riconosce una causa acuta alle amnesie sul campo di battaglia, ma si fa carico anche del perdurare dei sintomi da stress, attribuito ad un affaticamento da combattimento del sistema nervoso; infatti, Mott (1919)[13] e altri (1915-18, 1920-30) introducono la categoria nosografica della Combat Fatigue (lett.: affaticamento da combattimento). Durante la I guerra Mondiale sono diagnosticati 80.000 casi di Sindrome di Da Costa fra i soldati inglesi. Si va affermando una dicotomia fra sindromi psichiche (Combat Fatigue, Shell Shock e Nevrosi di Guerra) e sindromi fisiche prevalentemente cardiovascolari (Cuore irritabile del soldato)”[14].

Ma non mancano i passi indietro, in questo percorso di conoscenza clinica. Alcuni autori, infatti, non ritengono che l’impatto dello stressor, come fenomeno o evento traumatico, sia di per sé capace di causare un disturbo, e in particolare quelle sindromi che si chiamavano allora psiconevrosi emozionali, la cui psicogenesi era sempre e solo attribuita a un conflitto intrapsichico: “Kardiner e Spiegel (1930-1938) interpretano i sintomi e i disturbi a distanza dagli eventi traumatici presentati dai veterani della I guerra Mondiale come il ‘perdurare della rottura delle funzioni egoiche’, diagnosticando una psiconevrosi (Psychoneurosis), ovvero una nevrosi basata su un conflitto emozionale. Negano però la possibilità di patologia cronica da stress”[15].

Questo approccio, tuttavia, non si generalizza e la realtà degli effetti acuti causati dai bombardamenti del secondo conflitto planetario diviene clinicamente prioritaria nella medicina di pronto soccorso, come in neurologia e psichiatria: “L’interesse per le manifestazioni amnesiche e dissociative da stress si riaccende per la vasta casistica dovuta alla II Guerra Mondiale (1939-45). Sargent e Slater (1941) propongono le War Amnesic Syndromes, ossia le sindromi amnesiche da guerra.

Torrie (1944) studia la patologia psicosomatica da stress (Psychosomatic Syndromes) particolarmente in Medio Oriente ed evidenzia il suo rapporto con le reazioni amnesiche. Descrive fenomeni amnesici molto estesi, ad esempio riferisce che poco dopo l’inizio di un combattimento in Nord Africa il 5% dei soldati che vi prendevano parte non se ne ricordavano più.

Grinker e Spiegel, che introdussero la definizione di Combat Neuroses, sono gli autori di un volume considerato a lungo una pietra miliare nello studio degli effetti psicologici dello stress: Men Under Stress (1945)[16]. Il loro sforzo di sintesi coerente dei vari sintomi psichici e fisici, attribuiti prevalentemente all’eccessiva produzione di adrenalina, li porta ad organizzare i molteplici aspetti clinici in distinte forme di nevrosi”[17].

Gli orrori bellici consentono di rendersi conto del danno cronico causato sui civili e non solo degli effetti acuti da trauma. La guerra logora e distrugge la personalità in alcuni casi, come quando la barbarie degli eserciti si accanisce in modi diversi di tortura e uccisione sulla popolazione civile, attraverso la deportazione nei campi di sterminio, dove Ebrei e altre minoranze etniche venivano affamati, torturati, sottoposti a regimi di lavoro intollerabili e poi uccisi nelle camere a gas e nei forni crematori.

“Eitinger nello studio dei sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti, condotto dal 1948 al 1965 prevalentemente in Israele e Norvegia[18], fornisce la prima esaustiva descrizione della sindrome da stress cronico, caratterizzata da astenia, umore depresso, apatia, difficoltà di concentrazione, diminuzione della memoria, ansia, cefalea, disturbi del sonno, incubi, pensieri intrusivi, stato di allerta e tendenza a preoccuparsi. Definisce questo quadro Concentration Camp Syndrome, ritenendolo espressione di una risposta cronica di qualità nevrotica allo stress protratto.

Altri studi confermarono il rilievo di questi sintomi a molti anni di distanza dall’internamento, rilevando anche sentimenti di distacco ed estraniazione dagli altri e il ricorrente attualizzarsi di ricordi nella forma di veri e propri incubi diurni (Thygesen e coll., 1970)”[19].

La prima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico (DSM) dell’American Psychiatric Association, pubblicata nel 1952, per effetto dei numerosi studi sulla vasta casistica di patologia da stress causata dalla II Guerra Mondiale, include la categoria diagnostica della gross stress reaction. La seconda edizione del DSM, edita nel 1968 a una generazione di distanza dagli eventi bellici, elimina la diagnosi di gross stress reaction, legata dunque solo alla guerra.

Seguiamo ciò che accade riprendendo la lettura del saggio del nostro presidente:

“Ma i temi e i problemi della psicopatologia traumatica furono drammaticamente riproposti da un altro conflitto: la guerra del Vietnam.

Lawrence Kolb, assistendo e trattando i reduci della guerra del Vietnam, ebbe l’opportunità di studiare a fondo le loro condizioni, riportando in auge le conoscenze acquisite in passato ed apportando rilevanti contributi originali. Fra questi, il riscontro di un rapporto fra la condizione fisiopatologica sistemica e lo stato psichico generale, originò da un’osservazione casuale. Infatti gli capitò di osservare, non visto, i suoi pazienti in attesa nella sua sala d’aspetto: dov’erano seduti gli volgevano le spalle ed aspettavano il loro turno mentre la sua segretaria scriveva a macchina. Lo psichiatra americano notò che ogni volta che il carrello della macchina da scrivere della sua segretaria segnalava la fine della riga con il tipico suono di campanello, i pazienti sobbalzavano. Avevano un vero e proprio sussulto sulla sedia. Kolb chiamò questa reazione startle response e l’attribuì ai livelli di nor-adrenalina cronicamente alti in queste persone, come conseguenza dello stress”[20].

Sulla scorta di questi studi, e soprattutto di quelli di Charles Figley sui veterani del Vietnam[21], si giunse nel 1980 a includere nella terza edizione del DSM, detto DSM III, la diagnosi di Post Traumatic Stress Disorder.

L’anno dopo comincia l’era contemporanea nello studio dei danni causati dalla guerra, con il progressivo passaggio della priorità dallo studio della sintomatologia clinica alle indagini sul cervello, favorite dalle nuove metodiche di diagnostica per immagini, e in particolare dall’impiego della risonanza magnetica nucleare (RMN).

Oggi, per avere un’idea generale e complessiva del male che la guerra può fare ai popoli, si possono leggere le stime storico-statistiche di Clemens e Singer sui danni delle guerre, che furono inserite nella pubblicazione di un corso tenuto nel 2000 alla Waseda University di Tokyo, insieme con un articolo di Boothby e Knusden, da Richard Mollica, che ha dedicato gran parte della propria vita professionale all’assistenza e all’analisi della psicopatologia dei sopravvissuti dei conflitti, diventando un riferimento per gli psichiatri di tutto il mondo.

“Richard Mollica, professore di psichiatria della Harvard Medical School, è stato tra i fondatori nel 1981 dell’Harvard Program in Refugee Trauma, uno dei primi programmi per l’assistenza e lo studio dei sopravvissuti alla violenza di massa e alla tortura, attualmente considerato il progetto pilota in tutto il mondo per la ricerca clinica sul Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD).

Nel 1988 un team di psichiatri dell’Università di Harvard guidato da Richard Mollica fu inviato a Site 2, il più grande campo di rifugiati cambogiani[22], per uno studio condotto con il sostegno della World Federation for Mental Health. Furono intervistati 993 ospiti che riferirono di torture, stupri, prigionie e rapimento di bambini, per un totale di 15000 diversi episodi traumatici[23]. I casi di depressione clinica acuta e di PTSD furono stimati, rispettivamente, nell’ordine del 68% e 37%; valori simili furono riscontrati in altre due popolazioni di rifugiati: i Buhtanesi che vivono in Nepal e i Bosniaci che vivono in Croazia[24].

Nel 1999, per effetto degli accordi intercorsi fra i Khmer Rossi e il governo di Phnom Penh, migliaia di rifugiati rientrarono dai campi: molti di essi presentavano sintomi di depressione e di PTSD. Lo studio protratto consentì di accertare l’esistenza, accanto a coloro che presentavano sintomi gravi, di un numero vastissimo di persone affette da disturbi minori ma persistenti: “ferite invisibili” in grado di condizionare il resto della vita”[25].

È interessante notare che, sebbene i programmi ONU fossero improntati alla massima ampiezza nel sostegno materiale e a notevole disponibilità per l’assistenza in generale, non prevedevano alcun servizio psichiatrico o di assistenza psicologica; in altri termini, un secolo dopo Da Costa, c’era ancora una resistenza culturale a dare dignità di malattia, con diritto di trattamento, alla sofferenza psichica e psicosomatica. Dopo la presentazione del lavoro svolto da Mollica e colleghi sui Cambogiani, le autorità dell’ONU decisero di fornire assistenza psichiatrica ai rifugiati di tutte le guerre del mondo.

La grande mole di lavoro svolta dal programma di Harvard e da tutti gli altri gruppi internazionali di psichiatri e psicologici clinici che hanno seguito Mollica e colleghi, ha portato a conclusioni che si possono sintetizzare in sei punti:

1)      picco di malattie psichiatriche tra i civili sopravvissuti alle guerre;

2)      misura rigorosa della natura del trauma;

3)      comprensione del modo di concepire la malattia nel mondo non occidentale;

4)      alcune esperienze traumatiche più facilmente inducono PTSD e depressione;

5)      modificazioni organiche permanenti del cervello indotte dai traumi maggiori;

6)      relazione tra sofferenza da stress e disfunzioni riguardanti il ruolo sociale.

Ma, ritorniamo alla ricerca sulle lesioni causate dallo stress di livello traumatico all’ippocampo e alle altre aree vulnerabili del cervello umano.

L’orientamento verso l’accertamento diretto di danni cerebrali nell’uomo è stato anche indotto in quegli anni dall’enorme mole di dati della ricerca preclinica che aveva mostrato vari tipi di danno da stress nel cervello animale, dal livello molecolare, di neurotrasmettitori e recettori, fino al livello di sistemi e strutture particolarmente vulnerabili, quali ippocampo, amigdala e corteccia cerebrale.

“Sulla base di queste evidenze il gruppo di Douglas Bremner intraprese uno studio per verificare l’ipotesi del danno organico. Sottoposero ad un’accurata indagine morfologica mediante RMN un campione di veterani affetti da PTSD, comparandoli con un gruppo di controllo costituito da persone non affette, ma in tutto equivalenti per caratteristiche. Risultò che gli affetti da patologia psichica da trauma avevano un ippocampo di dimensioni ridotte rispetto ai controlli normali. In particolare, l’ippocampo di destra risultava, in media, inferiore dell’8%. Inoltre, la gravità del disturbo di memoria era direttamente proporzionale alla perdita di volume ippocampale. Questa ricerca, condotta nel 1995, evidenziò per la prima volta un danno da stress nel cervello umano”[26].

Lo studio che ha registrato la maggiore riduzione di volume dell’ippocampo in affetti da PTSD è stato condotto da Gurvits in veterani della guerra del Vietnam. Il risultato ha mostrato una riduzione bilaterale del volume dell’ippocampo del 26% ed una significativa correlazione con il livello di esposizione al combattimento misurato con la Combat Exposure Scale[27].

 

Dopo questo excursus, ritorniamo ai contenuti del numero speciale di PNAS USA presentati da Huda Akil e Eric J. Nestler, riprendendo dai casi di depressione maggiore causata da stress.

Prima della pandemia di COVID-19 era già noto e confermato che il Disturbo Depressivo Maggiore (MDD) e i Disturbi d’Ansia (AD) sono tra i principali problemi di salute in tutto il pianeta, ma entro il primo anno la pandemia ha innescato una drammatica crescita dei casi, con un aumento di circa 53 milioni di MDD e di 76 milioni di AD, costituendo un incremento di circa il 25% di queste diagnosi. È stato verificato che la dimensione dell’aumento di pazienti con disturbi da stress e dell’umore, nei singoli stati nazionali, era strettamente correlata con la dimensione dell’impatto dell’infezione da SARS-CoV-2 in quel paese.

A differenza di quanto è stato rappresentato dai media, le persone in età più giovane, e le giovani donne in particolare, hanno presentato l’impatto più profondo, nelle accurate indagini epidemiologiche per fascia di età. Altri picchi di patologia psichiatrica reattiva alla paura sono stati rinvenuti nelle professioni sanitarie, nei gruppi sociali economicamente svantaggiati, nei poveri indigenti e fra le persone discriminate per motivi razziali.

I disturbi d’ansia e dell’umore hanno tipicamente un decorso cronico recidivante e sono ritenuti responsabili di causare alterazioni del cervello in modi vari e complessi. La loro recente crescita di incidenza in bambini, adolescenti e giovani adulti è particolarmente preoccupante perché, se non adeguatamente affrontati con un cambiamento di stile di vita associato a psicoterapia e, quando indicato, a farmacoterapia, possono determinare conseguenze incidenti per decadi e difficili da trattare. È importante ricordare che questi disturbi accrescono la probabilità di patologia cardiovascolare e infiammatoria, in generale, e hanno un profondo impatto sull’organismo e sulla psiche del soggetto, potendo alterare i rapporti familiari e causare problemi sociali e lavorativi per “invalidità” psico-fisica.

Non è esagerato, affermano i due autori, considerare la presente emergenza di salute psichica globale come una nuova pandemia rapidamente diffusa in tutto il globo; infatti – argomentano – anche se non è propagata dal contagio biologicamente realizzato da un microrganismo come il coronavirus pandemico, è provata un’influenza interindividuale e sociale che comunica la paura e causa emulazione, suggestione, imitazione, adeguamento; pertanto è necessario intervenire sia limitando il diffondersi dei casi, sia riducendo la durata del disturbo negli affetti, così da interrompere la progressione esponenziale.

Cosa può fare la scienza?

Akil e Nestler sono certi che la scienza possa fare molto, innanzitutto facendo conoscere i grandi progressi compiuti negli ultimi decenni nella definizione delle basi neurobiologiche di questi disturbi, e poi cancellando quei luoghi comuni culturali – in Italia duri a morire presso gli psicologi che non hanno basi neurobiologiche e neurochimiche adeguate – secondo cui questi disturbi deriverebbero da uno squilibrio di un singolo neurotrasmettitore (la serotonina), che la concausa ereditaria sarebbe costituita da pochi geni che possono essere facilmente raggiunti da strategie terapeutiche o che la definizione clinica (PTSD, MDD, AD, ecc.) corrisponda a specifiche entità eziopatogeneticamente distinte e separate. La ricerca ha fornito un quadro complesso e articolato di elementi e processi, che hanno come elemento comune l’iperattivazione dei sistemi neuronici dello stress, con l’attivazione nella patologia cronica di circuiti di amplificazione della risposta (es.: circuito del locus coeruleus) con la produzione di danni (es.: lesioni da cortisolo dell’ippocampo) e di squilibri fra gli altri sistemi neuronici, e nell’omeostasi neuroendocrina e neuroimmunitaria, anche in conseguenza delle risposte di adattamento/compenso allo squilibrio.

Akil e Nestler ritengono che una chiara coscienza delle basi neuropatologiche attualmente accertate consentirebbe agli psichiatri di adottare strategie molto più appropriate e personalizzate di quelle attualmente in uso, pianificare e programmare trattamenti più efficienti e realizzare progetti di prevenzione con la collaborazione di altri professionisti e delle autorità sanitarie dei singoli paesi.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanni Rossi

BM&L-02 dicembre 2023

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] J. Douglas Bremner, Does Stress Damage the Brain?, p. 27, Norton, New York 2002.

[2] Da Costa J. M., On irritable heart: A clinical study of a form of functional cardiac disorder and its consequences. American Journal of Medical Science 161, 17-52, 1871.

[3] Giuseppe Perrella, Il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), pp. 13-14, Dipartimento di Neuroscienze dell’Università Federico II, Napoli 2005.

[4] Cfr. Monica Lanfredini & Giuseppe Perrella, Coraggio e Paura da Aristotele a Freud. Relazione al Seminario Permanente sull’Arte del Vivere, p. 3, BM&L-Italia, Firenze 2006.

[5] È ciò che connota e caratterizza la differenza tra guerra antica, fatta di duelli di forza e abilità “uomo contro uomo”, e guerra moderna, dominata da cannoni e mine. La concezione mitizzata del coraggio degli eroi del mondo classico rimane, ma la realtà è del tutto cambiata: l’antico doveva sapersi battere con forza fisica e armi bianche, imparando a ripararsi per evitare l’insidia delle frecce; il moderno si trova di fronte a una realtà in cui l’uomo fa la guerra usando strumenti che assomigliano a quelli dei cataclismi naturali, più che a delle armi per rendere letale un singolo su un altro.

[6] Giuseppe Perrella, Il coraggio e la paura nei secoli, p. 2. BM&L-Italia, Firenze. Relazione letta agli incontri presso il Caffè storico Gilli (Piazza della Repubblica, Firenze) maggio 2006, tratta da uno studio condotto in precedenza per l’Istituto di Clinica Psichiatrica dell’Università Federico II.

[7] Giuseppe Perrella, Il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), op. cit., p. 14.

[8] Cfr. Saigh P. A. & Bremner J. D. (editors), Posttraumatic stress disorder: a comprehensive text, Allyn & Bacon Needham Heights, Massachusetts, 1999, cit. in J. Douglas Bremner, op. cit, p. 71.

[9] Emil Kraepelin, Psychiatrie, Vol. V, p. 737, Auflage, Barth, Leipzig (1896-1985), qui citato nella traduzione di G. Perrella dalla versione inglese di Jablensky (G. Perrella, op cit., p. 14; v. per la citaz. completa da Kraepelin), adottata anche da J. Douglas Bremner, op. cit. p. 71.

[10] Giuseppe Perrella, Il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), op. cit., p. 15.

[11] Giuseppe Perrella, Il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), op. cit., p. 16.

[12] Giuseppe Perrella, op. cit., pp. 16-17.

[13] Cfr. F. W. Mott, War neuroses and shell shock. Oxford University Press, London 1919.

[14] Giuseppe Perrella, op. cit., p. 18.

[15] Successivamente Abram Kardiner ammette questa possibilità interpretandola in chiave psicoanalitica come sindrome che “può incorporarsi nella personalità in modi differenti”, come si può leggere nel capitolo dedicato alle nevrosi traumatiche di guerra nell’American Handbook of Psychiatry (Silvano Arieti, Manuale di Psichiatria in tre voll., vol. I, p. 242, Boringhieri, Torino 1985).

[16] Grinker R. R. & Spiegel J. P., Men Under Stress. Blackiston, Philadelphia 1945.

[17] Giuseppe Perrella, op. cit., pp. 18-19.

[18] Leo Eitinger, Concentration Camp Survivors in Norway and Israel. Allen and Unwin, London 1965.

[19] Giuseppe Perrella, op. cit., pp. 19-20.

[20] Giuseppe Perrella, op. cit., pp. 23-24.

[21] Charles Figley (editor), Stress Disorders among Vietnam Veterans. Brunner-Mazel, New York 1978.

[22] “Site 2” fa parte dei campi per i rifugiati che furono allestiti dall’ONU fra la Thailandia e la Cambogia.

[23] Richard F. Mollica, Invisible Wounds, Scientific American Vol. 282, Number 6, 36-39, 2000.

[24] Richard F. Mollica et al., JAMA 282, 433-439, 1999.

[25] Giuseppe Perrella, op. cit., pp. 32-33.

[26] Giuseppe Perrella, op. cit., p. 41.

[27] Giuseppe Perrella, op. cit., p. 42.